“Im Fruelling oder im Traume
bin Ich dir begegnet
einst..”
(In sogno o a primavera
ti ho incontrata...)
Rainer Maria Rilke
La prima volta l'avevo visto
a Firenze.
A casa di amici presso i quali abitavo
da quando avevo cominciato a frequentare l'Accademia di Belle Arti.
Ero arrivata dalla Sicilia e,
avendo trovato ospitalità in quella casa al secondo piano di una torre del
duecento nel cuore della città, fra strette strade ed incantevoli scorci di
cupole e campanili, mi trovai subito a mio agio rendendomi padrona di ogni
angolo di quel museo all'aria aperta che era Firenze.
L'amicizia che si era
instaurata fra la mia famiglia ed i miei padroni di casa datava da una lunga
frequentazione, iniziata al tempo in cui mia madre, rimasta prematuramente
orfana di sua madre, era stata mandata in collegio a Firenze da suo padre che,
rimasto vedovo ed essendo costretto ad assentarsi da casa per motivi inerenti
alla sua attività di proprietario terriero, non avrebbe potuto occuparsi di
persona dell'accudimento della sua unica figlia.
Nello stesso collegio, posto
alle pendici di una collina dalla quale la vista spaziava sul panorama di tutta
la città, fra le altre fanciulle ospiti, si trovava anche quella che sarebbe
diventata l'amica più intima di mia madre, madre a sua volta della mia attuale
padrona di casa; la loro amicizia non si era interrotta neanche quando all'età
di diciotto anni, come era consuetudine a quel tempo, le due ragazze erano
uscite dal collegio per convolare, alcuni mesi dopo, a nozze.
Mia madre dalla Sicilia, dove era tornata
e dove era rimasta una volta sposatasi, aveva intrattenuto con la sua amica un
epistolario lungo negli anni, fino al giorno in cui l'epidemia di spagnola
s'era portata via la vita della sua carissima compagna di collegio.
La mia presenza in quella
casa, quindi, stava rinnovando l'antico legame che aveva unito le nostre madri
e l'accoglienza che mi era stata riservata fu quella che si offre ad una cara persona
di famiglia.
Fui, infatti, subito
introdotta nella cerchia della migliore società fiorentina, invitata a tutte le
feste ed i balli che in quei giorni, ancora felici, si organizzavano nelle
meravigliose dimore di città e sui colli di quella gente spensierata, che un
futuro ormai prossimo avrebbe gettato nella disperazione.
Quella prima volta, in
occasione di un ricevimento, fra i vari invitati, di cui molti stranieri, s'era
visto pure il console tedesco in compagnia di alcuni suoi connazionali, persone
che, amanti della Toscana, avevano scelto di prendere casa a Firenze per
stabilirsi definitivamente in questa città, formando una piccola colonia di
lingua tedesca, bene assortita anche se inferiore per numero a quella inglese che,
da Siena a Lucca a Firenze, in quegli anni aveva eletto l'Italia e la Toscana,
in particolare, a seconda patria.
Lui arrivò che già la festa
era in pieno svolgimento.
Era da solo e non appena
entrò ed io lo vidi, rimasi abbagliata ed incredula: era di una bellezza come
mai ne avevo visto in un uomo, giovane o meno giovane, talmente straordinaria
da non potere credere che fosse reale e non, invece, frutto di un'effrazione da
una dimensione immaginaria.
Raggiunsi subito la mia
amica fra la calca che affollava il salone: “Chi è lui?” - le chiesi
“ Ah! - mi rispose ammiccando con un sorriso
che la diceva lunga - allora l'hai già visto! Non sei la sola ad avere già
puntato gli occhi su di lui! Si chiama Gunther von Kroll. Appartiene ad una
nobile famiglia di Amburgo. Poi ti dirò meglio... più tardi.”
Non smisi di guardarlo:
diverso dagli altri uomini, anche molto giovani, cui la moda di quegli anni
imponeva di impomatare i capelli pettinandoli all'indietro, cosa, peraltro,
estremamente antiestetica, i capelli del bellissimo tedesco, lasciati liberi da
impiastri, fluenti e luminosi, conferivano al suo aspetto un fascino
irresistibile da eroe di una saga nordica, venutosi a trovare, per uno strano
scherzo del tempo, catapultato in mezzo agli ingessati manichini in smoking di
quel posto; i suoi occhi, stretti e lunghi, erano di un blu intenso,
ammaliante, occhi che avrei disegnato infinite volte senza mai poterne cogliere
il mistero che celavano, occhi da cavaliere medievale, intrisi di ardore e di
malinconici sogni e del profondo blu dei mari del nord.
E poiché impunemente
continuai a non togliergli gli occhi di dosso per tutto il tempo che mi fu
possibile farlo, dovette accorgersene anche lui, che, pur restando lontano, più
volte si volse dalla mia parte.
Purtroppo, non potei mai
staccarmi dal gruppo di amici che mi circondavano per avvicinarmi con una scusa
qualsiasi ed anche lui, del resto, fu presto attorniato da molte persone.
Il salone era stracolmo di
gente... ci perdemmo di vista tra la calca degli invitati... sperai invano che
si avvicinasse.
Quella sera, quindi, non
ebbi occasione di rivolgergli la parola; seppi dopo dalla mia amica fiorentina
che anche l'anno precedente aveva visitato Firenze poiché, avendo conseguito la
laurea in Architettura in Germania, in seguito si era dedicato ad una ricerca
sull'opera del Brunelleschi da pubblicare per conto di quella Facoltà di cui
era entrato a far parte in qualità di Assistente.
Seppi pure che parlava la nostra lingua alla
perfezione.
A fine serata, nell’accomiatarsi, avvicinandosi
ai padroni di casa – io ero tra loro – mi lanciò uno sguardo... rabbrividii...
tanto penetrante fu la seduzione che quegli occhi emanavano da provocare
turbamento.
Fu quella l'unica volta che lo vidi in quell'anno; e
dire che già dal giorno seguente quell'incontro fugace mi ero messa alla
ricerca di lui, setacciando Firenze in lungo e in largo, sui Lungarno, nei
pressi del Duomo, dentro il Duomo, davanti la facoltà d'Architettura, finché,
arresa, avevo chiesto di lui all'amica che mi ospitava.
Fu allora che
seppi che la sera del nostro incontro sarebbe stata la sua ultima in Italia e
che l'indomani sarebbe ripartito per la Germania.
“Che ti frulla pel capo, bella?” - l'amica mi aveva
guardato con un sorriso malizioso - “ Che, ti sei persa d'amore per il bel
Gunther? Ma se l’è soltanto un ragazzo! Credo che abbia venticinque anni,
sicuramente non di più!”
Non le avevo risposto. Non a lei, sposata con un
uomo di vent'anni più vecchio e tanto meno io, non ancora ventenne!
“Per esser caruccio, via! lo è e tanto, sicché fra
qualche annetto saran dolori per tutte!” aveva, poi, aggiunto ed anche questa
volta avevo evitato di rispondere.
Divertente per quanto potesse essere quel modo
leggero di confrontarsi con la mia ansia di volere sapere quanto più possibile
su quel suo ospite, strideva con il mio modo di rappresentarmi la strana
sensazione che quello sguardo magnetico mi aveva provocato, al punto da avere
percepito come se fossi stata ipnotizzata.
“Bella, - la mia amica continuava a smorzare quella
che le sembrava una fantasia esagerata – tu sei un'artista con tutta la
meravigliosa follia di voi artisti del pennello: le vostre emozioni di fronte
la bellezza di un qualsiasi oggetto non sono paragonabili a quelle di noi
poveri mortali! Sicché, dovresti fartene una ragione e non andare fuori di
testa con fantasie eccessive sul biondo Gunther!”
Aveva ragione.
Se avevo scelto di
frequentare l'Accademia di Belle Arti, se ero riuscita ad impormi coi miei
genitori a che mi lasciassero partire per Firenze –“ Ma perché non qui, nella
tua città? L'Accademia di Belle Arti di Palermo non ha nulla da invidiare alle
altre sparse un po' dappertutto in Italia”- una spiegazione c'era: la mia
natura, segretamente irruenta anche se prudentemente tenuta sotto controllo,
anelava ad una totale libertà d'espressione del tumulto emotivo che avvertivo
in me. La pittura e la distanza da abitudini della routine familiare mi si
erano mostrate come imprescindibili scelte da operare per assestarmi nella
dimensione a me più consona.
Al cospetto della Bellezza,
quindi, appartenesse alla figura umana o a qualsiasi altro essere vivente o
oggetto o spettacolo della Natura, mi ci tuffavo in profondità - Ah, Narciso! -
attingendone dal suo misterioso richiamo la consapevolezza della sua funzione:
donare a noi, poveri mortali condannati all'impermanenza, l'oblio del male di
vivere.
Bellezza, allora, e solo
bellezza, sarebbe stato ed, in effetti, lo era l'unico mio ambito, culto,
impegno lavorativo ed a questo mi dedicavo anima e corpo, pur senza farmi
trascinare dentro al coro delle istanze modaiole che, anche dentro l'Accademia
affibbiavano a certe farraginose scomposizioni la patente di creatività
artistica.
La stessa avversione la
provavo pure di fronte l'immota stupidità di certi volti ritratti artatamente
privi di anima, o immerse dentro atmosfere dette metafisiche, a mio giudizio
buone solo ad épater les bourgeoises!
Le dispute e le accese
discussioni su tali argomenti all'Accademia certe volte degeneravano in veri e
propri conflitti di opinioni sia con i colleghi che con i Docenti dacché io su
certe posizioni non davo tregua a nessuno!
Non avrei dovuto stupirmi,
pertanto, nell'essermi lasciata catturare in quel modo fulmineo
dall'eccezionale avvenenza del giovane tedesco se, tutto sommato, faceva parte del mio apprendistato artistico fissare
il bello, analizzarlo, interpretarlo, scovandone ogni eventuale messaggio
recondito. Solo che quella sua figura, oltre ad avermi colpita per la sua
eccezionale avvenenza e, fin qui, niente di strano o di misterioso, aveva
improvvisamente sollecitato alla mia fantasia delle visioni in una specie di
momentanea trance: Gunther von Kroll, non era soltanto bellissimo, era altro...
L'eco di ancestrali vissuti nel fondo di fitte foreste... forse; forse nello
sperduto silenzio di castelli turriti, quell'eco affiorava dal profondo blu dei
suoi occhi e tutto ciò era passato da quello sguardo ed io l'avevo colto!
“Alcune sere fa - scrissi ad un'amica – mi è
capitato di assistere ad un'apparizione: la bellezza assoluta nella persona di
un giovane tedesco incontrato a casa di amici. E, poiché di apparizione si è
trattato, sono stata investita da una serie di immagini che per alcuni attimi
mi hanno trasportata fuori dal tempo: foreste incontaminate, castelli turriti
immersi nel silenzio di un paesaggio da saghe nordiche... una specie di trance
momentanea della quale non riesco, ancora, a darmene spiegazione. Hai presente
il termine tibetano “migspa”? Qui, all'Accademia se n'è discusso molto, a
proposito della capacità di visionare, oltre l'apparenza, percorsi extra
sensoriali cui potere accedere sotto la spinta dell'immaginazione creativa.
Credo proprio che io sia stata oggetto di siffatto fenomeno o, altrimenti, non
saprei come definire ciò che mi è accaduto.
Non ti descrivo la persona, causa di tale “viaggio”
nel tempo; posso solo assicurarti che, difficilmente, ci si possa imbattere in
una beltà di così rara perfezione come la sua.”
Quanto a lungo sarei rimasta
intrappolata in quella specie d'incantesimo? Me lo chiesi ancora per qualche
giorno.
Poi, fortunatamente, anche quel fuoco di
paglia, com'era prevedibile, si attutì, per cui, liberata dal fantasma molesto
delle mie fantasie, tornai ad essere quella di sempre: e tutto il tempo che
rimasi a Firenze potei goderlo in buona compagnia maschile, imponendomi di non
cadere nella trappola di altre fantasie, risoluta a mantenermi con i piedi ben
piantati a terra.
“Quant'è bella
giovinezza, che s'en fugge tuttavia... chi vuol esser lieto, sia!...” eccetera eccetera, fu il mio
mantra preferito in quel tempo più che lieto, spensierato.
Ma il tempo scorreva e
veloce e già alcune nubi di inquietante foschia cominciarono a comparire
all'orizzonte del nostro felice, ristretto mondo fiorentino: certe notizie,
infatti, iniziavano a circolare nella festosa atmosfera godereccia di noi
studenti e, anche se noi si faceva di tutto per non darvi eccessiva importanza,
tuttavia, certi fatti ad un certo momento non si poterono più ignorare.
Alcune famiglie ebree erano
scomparse dall'oggi al domani e fra di esse anche quella di un nostro collega
all'Accademia.
Lui, una mattina non si era
presentato al nostro solito appuntamento al Caffè dove ci radunavamo prima di
entrare a lezione; qualche ora più tardi, si venne a sapere che insieme a tutti
i suoi familiari era stato prelevato nella notte e condotto in una caserma
della polizia e, nella stessa giornata, trasferito in una località segreta.
Quel giorno, inorridita,
telefonai ai miei: ero sconvolta.
“ A Palermo... tutto bene... tutto tranquillo?”
“ Si. Tutto come al solito. Ma, cosa è successo,
perché sei così spaventata?”
Raccontai il fatto, volevo
assicurarmi che una cosa simile non stesse accadendo pure lì.
“Vuoi scherzare?- mi dissero – Non se ne parla
neanche. Qui è tutto tranquillo. Non sappiamo assolutamente nulla, neanche chi
siano gli Ebrei e se ci siano a Palermo e, anche se ci fossero e sicuramente ce
ne saranno, ma perché dovrebbero temere qualcosa?”
La mia Sicilia! Ancora e
sempre un mondo a sé, terra di tutti e di nessuno, a seconda dei tempi e degli
eventi, protetta e pur esposta nella sua magnificenza ad ogni e da ogni
contaminazione che in essa finiva per fondersi in un unico caleidoscopio di
razze e di miti.
Sinceramente, devo ammettere
di essere rimasta all'oscuro se anche in Sicilia si fossero verificati arresti
e deportazioni di Ebrei una volta deposta la vergognosa firma di Vittorio
Emanuele III in calce alle leggi razziste volute da Mussolini; tuttavia,
propendo a considerare tale eventualità molto meno aberrante e, sicuramente,
sporadica che non nel resto della nazione, per cui lo stupore dei miei genitori
nel rispondere alla mia angosciata domanda fu certamente dettata dall'assenza
di allarme se non, addirittura, dall'indifferenza di tutta la cittadinanza
riguardo al problema, la cui eco non era ancora arrivata a turbarne le
coscienze.
La censura imposta dal
regime fascista, in realtà e non solo in Sicilia, non dava adito ad attivare
l'attenzione della gente sulla campagna di odio intrapresa contro gli Ebrei, di
cui poco o nulla si era al corrente se non per sporadici passa parola in quelle
regioni nelle quali se ne stava già effettuando la vergognosa caccia porta a
porta.
Fu, quindi, principalmente
questo il motivo per cui nel sud dell'Italia dove risiedeva uno sparuto numero
di Ebrei rispetto a quello esistente al nord, certe notizie giunsero quando
ormai la guerra, lì, era praticamente finita.
Fu proprio in occasione di
quel primo attentato alla pace che decisi di non fermarmi al nord se non il
tempo giusto per concludere il corso all'Accademia.
Ulteriori sparizioni di Ebrei, infatti, si erano
susseguite a quella prima ed era ormai evidente che si stesse attuando un'epurazione
vera e propria; sia in Toscana che in altre regioni del settentrione la caccia
era stata aperta, per cui anche noi dell'Accademia, fummo costretti ad
ammettere che la propaganda nazista, oltre ad ammorbare la Germania, era già
sconfinata nel nostro Paese, nonostante fino ad allora ci fossimo illusi di non
potere essere coinvolti fino a tal punto in quella che sarebbe stata la pagina
più vergognosa della storia del nostro secolo.
Trascorso, quindi, il tempo
per conseguire l'attestato di fine corso all'Accademia, me ne tornai a casa
mia, in Sicilia.
Nel congedarmi dai miei
amici ci ripromettemmo di rincontrarci presto: loro sarebbero venuti l'estate
seguente a trascorrere una vacanza nella casa a mare della mia famiglia ed io,
in autunno, sarei tornata a Firenze per frequentare un corso di formazione,
atto ad acquisire i titoli necessari all'insegnamento di Storia dell'Arte.
Era il 1938.