venerdì 2 novembre 2018

L'Amore del Tenente von Kroll - Premessa

      
“Quello che mi chiedete è troppo: il tempo della felicità?
Forse pensate che esista un tempo, determinato, datato, per essere felici? Ed uno o tanti per non esserlo?
Uno stato di esaltazione: ecco cos'è la felicità.
Può durare un tempo brevissimo, volatile, come Eros, il dio bendato. Sospeso sull'abisso.
E' figlia di Fortuna, altra divinità cieca. La più volubile.
Il Piacere la nutre e, poiché dionisiaca, inganna e sfugge al controllo della volontà.”







   Accadde: e fu il più tragico inverno degli anni della seconda guerra mondiale in Europa: nel 1944, mentre le sorti di quell'evento bellico si delineavano avverse all'esercito tedesco, intrappolato ormai in Italia in seguito all'armistizio del Settembre del '43 tra gli assalti della resistenza partigiana nel nord e l'avanzata dal sud degli Alleati Anglo Americani, sul fronte nord occidentale del continente europeo, e precisamente in Olanda, i Tedeschi operarono l'ultimo estremo tentativo di riprendere il predominio sul nemico, con l'imposizione di un embargo che bloccò l'accesso di viveri e di ogni genere di materie di prima necessità.

   Sullo sfondo di un simile scenario, funestato dalla fame e da atti di inaudita violenza e ferocia in gran parte dell'Europa e non solo in Olanda il cui Hongerwinter, l'inverno della carestia per l'appunto, decimò la popolazione di città come Amsterdam, in Italia e precisamente nella zona marcata dalla presenza della linea gotica, mi è sembrato opportuno dare voce ad un liberatorio controcanto nelle figure dei protagonisti di straordinarie storie d'amore.

   Inoltre – e mi piace sottolinearlo – ho ritenuto opportuno spezzare una lancia in favore della bellezza maschile della quale poco o niente si è scritto lasciando, invece, ampio spazio a quella muliebre come se soltanto questa meritasse - o, addirittura, esistesse – di essere riconosciuta in quanto l'unica fra i due generi, mettendo in dubbio la sua capacità di scatenare nelle donne l'ammirazione, il desiderio, la passione amorosa né più e né meno come, invece, gli uomini hanno sempre dimostrato di sapere raccontare in totale libertà espressiva.

  Iniziato come un racconto e successivamente ampliato, “L'Amore del Tenente von Kroll” ha però conservato alcune parti della originaria trascrizione in forma di dialoghi.

                                                               l'Autrice

 

 
 
 
 

giovedì 1 novembre 2018

L'Amore del Tenente von Kroll - Capitolo I

 

Im Fruelling oder im Traume

bin Ich dir begegnet einst..”

(In sogno o a primavera

ti ho incontrata...)
 

Rainer Maria Rilke

 

 
 

La prima volta l'avevo visto a Firenze.

         A casa di amici presso i quali abitavo da quando avevo cominciato a frequentare l'Accademia di Belle Arti.

Ero arrivata dalla Sicilia e, avendo trovato ospitalità in quella casa al secondo piano di una torre del duecento nel cuore della città, fra strette strade ed incantevoli scorci di cupole e campanili, mi trovai subito a mio agio rendendomi padrona di ogni angolo di quel museo all'aria aperta che era Firenze.

L'amicizia che si era instaurata fra la mia famiglia ed i miei padroni di casa datava da una lunga frequentazione, iniziata al tempo in cui mia madre, rimasta prematuramente orfana di sua madre, era stata mandata in collegio a Firenze da suo padre che, rimasto vedovo ed essendo costretto ad assentarsi da casa per motivi inerenti alla sua attività di proprietario terriero, non avrebbe potuto occuparsi di persona dell'accudimento della sua unica figlia.

Nello stesso collegio, posto alle pendici di una collina dalla quale la vista spaziava sul panorama di tutta la città, fra le altre fanciulle ospiti, si trovava anche quella che sarebbe diventata l'amica più intima di mia madre, madre a sua volta della mia attuale padrona di casa; la loro amicizia non si era interrotta neanche quando all'età di diciotto anni, come era consuetudine a quel tempo, le due ragazze erano uscite dal collegio per convolare, alcuni mesi dopo, a nozze.

         Mia madre dalla Sicilia, dove era tornata e dove era rimasta una volta sposatasi, aveva intrattenuto con la sua amica un epistolario lungo negli anni, fino al giorno in cui l'epidemia di spagnola s'era portata via la vita della sua carissima compagna di collegio.

La mia presenza in quella casa, quindi, stava rinnovando l'antico legame che aveva unito le nostre madri e l'accoglienza che mi era stata riservata fu quella che si offre ad una cara persona di famiglia.

Fui, infatti, subito introdotta nella cerchia della migliore società fiorentina, invitata a tutte le feste ed i balli che in quei giorni, ancora felici, si organizzavano nelle meravigliose dimore di città e sui colli di quella gente spensierata, che un futuro ormai prossimo avrebbe gettato nella disperazione.

Quella prima volta, in occasione di un ricevimento, fra i vari invitati, di cui molti stranieri, s'era visto pure il console tedesco in compagnia di alcuni suoi connazionali, persone che, amanti della Toscana, avevano scelto di prendere casa a Firenze per stabilirsi definitivamente in questa città, formando una piccola colonia di lingua tedesca, bene assortita anche se inferiore per numero a quella inglese che, da Siena a Lucca a Firenze, in quegli anni aveva eletto l'Italia e la Toscana, in particolare, a seconda patria.

 

Lui arrivò che già la festa era in pieno svolgimento.

Era da solo e non appena entrò ed io lo vidi, rimasi abbagliata ed incredula: era di una bellezza come mai ne avevo visto in un uomo, giovane o meno giovane, talmente straordinaria da non potere credere che fosse reale e non, invece, frutto di un'effrazione da una dimensione immaginaria.

Raggiunsi subito la mia amica fra la calca che affollava il salone: “Chi è lui?” - le chiesi

 “ Ah! - mi rispose ammiccando con un sorriso che la diceva lunga - allora l'hai già visto! Non sei la sola ad avere già puntato gli occhi su di lui! Si chiama Gunther von Kroll. Appartiene ad una nobile famiglia di Amburgo. Poi ti dirò meglio... più tardi.”

 

Non smisi di guardarlo: diverso dagli altri uomini, anche molto giovani, cui la moda di quegli anni imponeva di impomatare i capelli pettinandoli all'indietro, cosa, peraltro, estremamente antiestetica, i capelli del bellissimo tedesco, lasciati liberi da impiastri, fluenti e luminosi, conferivano al suo aspetto un fascino irresistibile da eroe di una saga nordica, venutosi a trovare, per uno strano scherzo del tempo, catapultato in mezzo agli ingessati manichini in smoking di quel posto; i suoi occhi, stretti e lunghi, erano di un blu intenso, ammaliante, occhi che avrei disegnato infinite volte senza mai poterne cogliere il mistero che celavano, occhi da cavaliere medievale, intrisi di ardore e di malinconici sogni e del profondo blu dei mari del nord.

E poiché impunemente continuai a non togliergli gli occhi di dosso per tutto il tempo che mi fu possibile farlo, dovette accorgersene anche lui, che, pur restando lontano, più volte si volse dalla mia parte.

Purtroppo, non potei mai staccarmi dal gruppo di amici che mi circondavano per avvicinarmi con una scusa qualsiasi ed anche lui, del resto, fu presto attorniato da molte persone.

Il salone era stracolmo di gente... ci perdemmo di vista tra la calca degli invitati... sperai invano che si avvicinasse.

 

Quella sera, quindi, non ebbi occasione di rivolgergli la parola; seppi dopo dalla mia amica fiorentina che anche l'anno precedente aveva visitato Firenze poiché, avendo conseguito la laurea in Architettura in Germania, in seguito si era dedicato ad una ricerca sull'opera del Brunelleschi da pubblicare per conto di quella Facoltà di cui era entrato a far parte in qualità di Assistente.

 Seppi pure che parlava la nostra lingua alla perfezione.

A  fine serata, nell’accomiatarsi, avvicinandosi ai padroni di casa – io ero tra loro – mi lanciò uno sguardo... rabbrividii... tanto penetrante fu la seduzione che quegli occhi emanavano da provocare turbamento.

Fu quella l'unica volta che lo vidi in quell'anno; e dire che già dal giorno seguente quell'incontro fugace mi ero messa alla ricerca di lui, setacciando Firenze in lungo e in largo, sui Lungarno, nei pressi del Duomo, dentro il Duomo, davanti la facoltà d'Architettura, finché, arresa, avevo chiesto di lui all'amica che mi ospitava.

 Fu allora che seppi che la sera del nostro incontro sarebbe stata la sua ultima in Italia e che l'indomani sarebbe ripartito per la Germania.

“Che ti frulla pel capo, bella?” - l'amica mi aveva guardato con un sorriso malizioso - “ Che, ti sei persa d'amore per il bel Gunther? Ma se l’è soltanto un ragazzo! Credo che abbia venticinque anni, sicuramente non di più!”

Non le avevo risposto. Non a lei, sposata con un uomo di vent'anni più vecchio e tanto meno io, non ancora ventenne!

“Per esser caruccio, via! lo è e tanto, sicché fra qualche annetto saran dolori per tutte!” aveva, poi, aggiunto ed anche questa volta avevo evitato di rispondere.

Divertente per quanto potesse essere quel modo leggero di confrontarsi con la mia ansia di volere sapere quanto più possibile su quel suo ospite, strideva con il mio modo di rappresentarmi la strana sensazione che quello sguardo magnetico mi aveva provocato, al punto da avere percepito come se fossi stata ipnotizzata.

“Bella, - la mia amica continuava a smorzare quella che le sembrava una fantasia esagerata – tu sei un'artista con tutta la meravigliosa follia di voi artisti del pennello: le vostre emozioni di fronte la bellezza di un qualsiasi oggetto non sono paragonabili a quelle di noi poveri mortali! Sicché, dovresti fartene una ragione e non andare fuori di testa con fantasie eccessive sul biondo Gunther!”

Aveva ragione.

Se avevo scelto di frequentare l'Accademia di Belle Arti, se ero riuscita ad impormi coi miei genitori a che mi lasciassero partire per Firenze –“ Ma perché non qui, nella tua città? L'Accademia di Belle Arti di Palermo non ha nulla da invidiare alle altre sparse un po' dappertutto in Italia”- una spiegazione c'era: la mia natura, segretamente irruenta anche se prudentemente tenuta sotto controllo, anelava ad una totale libertà d'espressione del tumulto emotivo che avvertivo in me. La pittura e la distanza da abitudini della routine familiare mi si erano mostrate come imprescindibili scelte da operare per assestarmi nella dimensione a me più consona.

Al cospetto della Bellezza, quindi, appartenesse alla figura umana o a qualsiasi altro essere vivente o oggetto o spettacolo della Natura, mi ci tuffavo in profondità - Ah, Narciso! - attingendone dal suo misterioso richiamo la consapevolezza della sua funzione: donare a noi, poveri mortali condannati all'impermanenza, l'oblio del male di vivere.

 

Bellezza, allora, e solo bellezza, sarebbe stato ed, in effetti, lo era l'unico mio ambito, culto, impegno lavorativo ed a questo mi dedicavo anima e corpo, pur senza farmi trascinare dentro al coro delle istanze modaiole che, anche dentro l'Accademia affibbiavano a certe farraginose scomposizioni la patente di creatività artistica.

La stessa avversione la provavo pure di fronte l'immota stupidità di certi volti ritratti artatamente privi di anima, o immerse dentro atmosfere dette metafisiche, a mio giudizio buone solo ad épater les bourgeoises!

Le dispute e le accese discussioni su tali argomenti all'Accademia certe volte degeneravano in veri e propri conflitti di opinioni sia con i colleghi che con i Docenti dacché io su certe posizioni non davo tregua a nessuno!

Non avrei dovuto stupirmi, pertanto, nell'essermi lasciata catturare in quel modo fulmineo dall'eccezionale avvenenza del giovane tedesco se, tutto sommato, faceva  parte del mio apprendistato artistico fissare il bello, analizzarlo, interpretarlo, scovandone ogni eventuale messaggio recondito. Solo che quella sua figura, oltre ad avermi colpita per la sua eccezionale avvenenza e, fin qui, niente di strano o di misterioso, aveva improvvisamente sollecitato alla mia fantasia delle visioni in una specie di momentanea trance: Gunther von Kroll, non era soltanto bellissimo, era altro... L'eco di ancestrali vissuti nel fondo di fitte foreste... forse; forse nello sperduto silenzio di castelli turriti, quell'eco affiorava dal profondo blu dei suoi occhi e tutto ciò era passato da quello sguardo ed io l'avevo colto!

 

“Alcune sere fa - scrissi ad un'amica – mi è capitato di assistere ad un'apparizione: la bellezza assoluta nella persona di un giovane tedesco incontrato a casa di amici. E, poiché di apparizione si è trattato, sono stata investita da una serie di immagini che per alcuni attimi mi hanno trasportata fuori dal tempo: foreste incontaminate, castelli turriti immersi nel silenzio di un paesaggio da saghe nordiche... una specie di trance momentanea della quale non riesco, ancora, a darmene spiegazione. Hai presente il termine tibetano “migspa”? Qui, all'Accademia se n'è discusso molto, a proposito della capacità di visionare, oltre l'apparenza, percorsi extra sensoriali cui potere accedere sotto la spinta dell'immaginazione creativa. Credo proprio che io sia stata oggetto di siffatto fenomeno o, altrimenti, non saprei come definire ciò che mi è accaduto.

Non ti descrivo la persona, causa di tale “viaggio” nel tempo; posso solo assicurarti che, difficilmente, ci si possa imbattere in una beltà di così rara perfezione come la sua.”

 

Quanto a lungo sarei rimasta intrappolata in quella specie d'incantesimo? Me lo chiesi ancora per qualche giorno.

 Poi, fortunatamente, anche quel fuoco di paglia, com'era prevedibile, si attutì, per cui, liberata dal fantasma molesto delle mie fantasie, tornai ad essere quella di sempre: e tutto il tempo che rimasi a Firenze potei goderlo in buona compagnia maschile, imponendomi di non cadere nella trappola di altre fantasie, risoluta a mantenermi con i piedi ben piantati a terra.

 

“Quant'è bella giovinezza, che s'en fugge tuttavia... chi vuol esser lieto, sia!...” eccetera eccetera, fu il mio mantra preferito in quel tempo più che lieto, spensierato.

 

Ma il tempo scorreva e veloce e già alcune nubi di inquietante foschia cominciarono a comparire all'orizzonte del nostro felice, ristretto mondo fiorentino: certe notizie, infatti, iniziavano a circolare nella festosa atmosfera godereccia di noi studenti e, anche se noi si faceva di tutto per non darvi eccessiva importanza, tuttavia, certi fatti ad un certo momento non si poterono più ignorare.

Alcune famiglie ebree erano scomparse dall'oggi al domani e fra di esse anche quella di un nostro collega all'Accademia.

Lui, una mattina non si era presentato al nostro solito appuntamento al Caffè dove ci radunavamo prima di entrare a lezione; qualche ora più tardi, si venne a sapere che insieme a tutti i suoi familiari era stato prelevato nella notte e condotto in una caserma della polizia e, nella stessa giornata, trasferito in una località segreta.

Quel giorno, inorridita, telefonai ai miei: ero sconvolta.

“ A Palermo... tutto bene... tutto tranquillo?”

“ Si. Tutto come al solito. Ma, cosa è successo, perché sei così spaventata?”

Raccontai il fatto, volevo assicurarmi che una cosa simile non stesse accadendo pure lì.

“Vuoi scherzare?- mi dissero – Non se ne parla neanche. Qui è tutto tranquillo. Non sappiamo assolutamente nulla, neanche chi siano gli Ebrei e se ci siano a Palermo e, anche se ci fossero e sicuramente ce ne saranno, ma perché dovrebbero temere qualcosa?”

La mia Sicilia! Ancora e sempre un mondo a sé, terra di tutti e di nessuno, a seconda dei tempi e degli eventi, protetta e pur esposta nella sua magnificenza ad ogni e da ogni contaminazione che in essa finiva per fondersi in un unico caleidoscopio di razze e di miti.                                                                                                   

Sinceramente, devo ammettere di essere rimasta all'oscuro se anche in Sicilia si fossero verificati arresti e deportazioni di Ebrei una volta deposta la vergognosa firma di Vittorio Emanuele III in calce alle leggi razziste volute da Mussolini; tuttavia, propendo a considerare tale eventualità molto meno aberrante e, sicuramente, sporadica che non nel resto della nazione, per cui lo stupore dei miei genitori nel rispondere alla mia angosciata domanda fu certamente dettata dall'assenza di allarme se non, addirittura, dall'indifferenza di tutta la cittadinanza riguardo al problema, la cui eco non era ancora arrivata a turbarne le coscienze.

La censura imposta dal regime fascista, in realtà e non solo in Sicilia, non dava adito ad attivare l'attenzione della gente sulla campagna di odio intrapresa contro gli Ebrei, di cui poco o nulla si era al corrente se non per sporadici passa parola in quelle regioni nelle quali se ne stava già effettuando la vergognosa caccia porta a porta.

Fu, quindi, principalmente questo il motivo per cui nel sud dell'Italia dove risiedeva uno sparuto numero di Ebrei rispetto a quello esistente al nord, certe notizie giunsero quando ormai la guerra, lì, era praticamente finita.

 

Fu proprio in occasione di quel primo attentato alla pace che decisi di non fermarmi al nord se non il tempo giusto per concludere il corso all'Accademia.

 Ulteriori sparizioni di Ebrei, infatti, si erano susseguite a quella prima ed era ormai evidente che si stesse attuando un'epurazione vera e propria; sia in Toscana che in altre regioni del settentrione la caccia era stata aperta, per cui anche noi dell'Accademia, fummo costretti ad ammettere che la propaganda nazista, oltre ad ammorbare la Germania, era già sconfinata nel nostro Paese, nonostante fino ad allora ci fossimo illusi di non potere essere coinvolti fino a tal punto in quella che sarebbe stata la pagina più vergognosa della storia del nostro secolo.

 

 

Trascorso, quindi, il tempo per conseguire l'attestato di fine corso all'Accademia, me ne tornai a casa mia, in Sicilia.

Nel congedarmi dai miei amici ci ripromettemmo di rincontrarci presto: loro sarebbero venuti l'estate seguente a trascorrere una vacanza nella casa a mare della mia famiglia ed io, in autunno, sarei tornata a Firenze per frequentare un corso di formazione, atto ad acquisire i titoli necessari all'insegnamento di Storia dell'Arte.

Era il 1938.